L’Italia nelle sentenze, tra legalità e civismo

L’Italia nelle sentenze, tra legalità e civismo
30 Ottobre 2017: L’Italia nelle sentenze, tra legalità e civismo 30 Ottobre 2017

Le sentenze sono a volte lo specchio dei vizi e delle virtù di un popolo.

Ce lo dimostra la recente decisione di una Sezione giurisdizionale della Corte dei conti che impartisce una lezione di civismo ad un segretario comunale che non ha ben chiara la distinzione tra enti pubblici e persone che li rappresentano.

L’occasione è data da una spesa, peraltro modesta (€ 766,55), deliberata dalla Giunta comunale per l’acquisto di un dono da fare al Presidente della Provincia nell’occasione del suo genetliaco, alla quale il segretario aveva prestato il proprio parere di legittimità.

Compulsato dalla Procura contabile, il segretario si difende, riferendo della prassi da tempo invalsa di consultare il presidente “prima della progettazione di nuove opere edilizie o risanamenti di strade e piazze… per capire se nell’anno corrente il bilancio provinciale disponeva di mezzi finanziari sufficienti” a finanziare tali lavori.

Di qui, a suo dire, l’utilità per il Comune di deliberare il dono all’”alto rappresentante di un’autorità”, poiché “in tal modo” l’ente, negli anni a venire, avrebbe ottenuto di poter “portare avanti in modo sistematico i suoi obiettivi”, con conseguente vantaggio per la comunità amministrata.

Il Giudice contabile si vede costretto a censurare “tale impropria concezione dei rapporti con l’ente centrale, imperniata su un diretto riferimento alla persona fisica del suo presidente”, tradottasi in un “malinteso senso di riconoscenza” nei suoi confronti.

Osserva la sentenza che l’attuazione dei “progetti dell’ente di appartenenza” non può esser affidata ad “una sorta di personalistico atteggiamento di favore, a sua volta meritevole di una sorta di riconoscenza di natura ‘istituzionale’”, ma dev’essere frutto “di leale collaborazione” fra pubbliche amministrazioni  e di un “impersonale… componimento dei pubblici interessi prospettati e/o considerati”.

Cose ovvie, ma evidentemente non per quel funzionario pubblico, nella cui condotta la Corte dei conti ravvisa un’”imperdonabile negligenza”, negandogli di esercitare il proprio “potere riduttivo” dell’addebito proprio in considerazione dello “spiccato livello di intensità della colpa”, nonostante la minimalità del danno recato all’erario.

A questo punto molti si chiederanno in quale parte d’Italia si trovi il Comune interessato.

La risposta stupirà non pochi.

Nella Provincia Autonoma di Bolzano.

A riprova che i vizi che tutt’ora affliggono gli italiani nei loro rapporti con la cosa pubblica non sono patrimonio solo di alcuni di alcune Regioni e non rappresentano una novità potrei ricordare le severe disposizioni che vigevano nella Repubblica Serenissima, laddove era vietato a qualunque magistrato di far apporre iscrizioni laudative nelle opere pubbliche realizzate sotto il suo mandato.

Ed, infatti, se visitando Venezia osserverete con attenzione le molte lapidi che fregiano la città, non ne troverete una che ricordi il magistrato che fece costruire un ponte, un edificio o un’opera pubblica.

Accadde nella mia città, durante il Dominio della Repubblica, che nel Cinquecento un Podestà veneziano, ben conoscendo queste norme, abbia tentato di far intitolare una delle nuove Porte ricavate nelle Mura cittadine al proprio Santo patronimico, per aggirare il divieto e farsi in tal modo ricordare dai posteri.

Ma andò male a Paolo Nani, patrizio veneto, appartenente ad una famiglia che, pur iscritta nel Libro d’oro della nobiltà sin dalla serrata del Maggior Consiglio, non assurse mai al Dogado, perché il Senato (che, come tutte le magistrature veneziane, oltre ad esercitare le proprie funzioni, aveva il compito di controllare l’operato di altri magistrati), avvedutosi dell’espediente, gli ingiunse di mutar d’intento, costringendolo ad intitolare la Porta a San Tommaso Becket.

Tant’è che essa è ancor oggi, per tutti, Porta San Tomaso.

Meno efficienti sono i censori odierni, poiché purtroppo qualcuno fra gli ultimi amministratori ha pensato bene di farsi ricordare, con apposita iscrizione, per non aver fatto null’atro che il proprio dovere, restaurando o costruendo un’opera pubblica.

Nessuno glielo ha vietato perché nella Repubblica italiana non esistono norme che lo proibiscano.

E questo spiega eloquentemente la differenza tra legalità e civismo.

La prima è l’obbedienza, più o meno convinta, ad un comando che viene da fuori di noi, e che non sempre basta, il secondo nasce da una legge morale che è dentro di noi, alla quale aderiamo per convinzione personale, senza bisogno di esser richiamati da qualcuno o per timore di una pena.

Sentenza n. 13/2017 della Sezione giurisdizionale di Bolzano della Corte dei conti pubblicata il 18.5.2017

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